Daniele Conti è un giocatore fantastico, per tanti motivi, eppure non ha mai ricevuto una sola convocazione in Nazionale: a volte avere un cognome così pesante, Daniele per i pochi che non lo sapessero è il figlio di Bruno Conti (campione del mondo con l’Italia nel ’82), può aprirti qualche porta ad inizio carriera ma anche sbatterti in faccia portoni ben più grandi quando hai lasciato il nido e sei pronto a essere te stesso, e non più figlio di. Daniele Conti è l’anima del Cagliari, una bandiera di quelle che se ne vedono sempre di meno, trecento partite in Serie A di cui 295 con la maglia dei sardi (le altre 5 con la Roma, con annesso gol sotto la Sud al Perugia), arrivato sull’isola nell’ormai lontano 1999 per un miliardo e 250 milioni delle vecchie lire e mai più andato via: quattro anni di B a farsi le ossa e a prendersi le chiavi del centrocampo, poi solo massima serie con gol, corsa e piedi buoni, il tutto contornato da una fascia da capitano ultra-meritata al pensionamento di Diego Lopez, ora suo allenatore.
Domenica scorsa ha siglato il suo terzo e quarto gol in campionato (il 48esimo e il 49esimo in rossoblu), regalando la vittoria al club di Massimo Cellino con una punizione delle sue, un missile terra-aria che ha confuso e non poco l’estremo difensore del Torino Padelli: vittoria sulla sirena festeggiata con un bellissimo abbraccio col figlio Manuel, un refrain dopo il festeggiamento di un anno fa con l’altro figlio, Brunetto. Così ieri il padre, Bruno appunto, ha usato le pagine dell’Unione Sarda per scrivere una bellissima missiva al figlio, parole toccanti che non potevamo non riportare su questo blog a uso e consumo di chiunque se le fosse perse. Perché si potrebbe parlare per ore di Daniele Conti, ma quanto scritto dal padre è il miglior riassunto per celebrare un giocatore tanto bravo quanto mai realmente considerato dagli addetti ai lavori e dai tifosi delle squadre diverse dal Cagliari. Buona lettura.
«Pensavo di averle vissute e provate tutte, poi mi ritrovo a 58 anni sul divano davanti alla tv con le lacrime agli occhi, e tua madre accanto, non spiccica parola, mi guarda incantata e troppo emozionata e felice per parlare e rompere l’incantesimo. Già ci avevi fatti piangere l’anno scorso con Brunetto, ora Manuel. La stessa scena, la stessa gioia. Perché quell’abbraccio racconta una famiglia, la nostra famiglia. Perché tutti conoscono il grande calciatore che sei diventato, in pochi però sanno quanto tu sia un grande uomo, un grande figlio, un grande padre.
Mi capita spesso di ripensare a quella mattina in cui mi chiamò il direttore sportivo della Roma Franco Baldini per comunicarmi la tua cessione al Cagliari in comproprietà per una stagione. Proprio in Sardegna, pensai, la terra in cui io e tua madre ci eravamo innamorati nell’estate dell’82. Ero felicissimo, anch’io poi mi sono dovuto fare le ossa al Genoa prima di giocarmela nella Roma. Forse all’inizio, in cuor mio, speravo di rivederti presto con la maglia giallorossa, e quel gol al Perugia sotto la Sud resterà un ricordo indelebile. Quindici anni dopo è andata in tutt’altro modo. Una storia diversa, forse più bella, di sicuro speciale. Hai fatto una scelta importante, la più difficile, ma alla fine hai vinto tu.
Ricordo i primi momenti al Cagliari, l’esordio, i sogni, le difficoltà. Per anni ti sei portato sulle spalle quel cognome pesantissimo, ingombrante. Soffrivo quando la gente ti paragonava a me, non era giusto. Col tempo però, hai zittito tutti, poi li hai conquistati sul campo. Col talento, con la forza, col carattere. E in questo si, siamo uguali perché entrambi siamo testardi e corretti allo stesso tempo, non cerchiamo sotterfugi, guardiamo tutti in faccia a testa alta con la cultura del lavoro e della famiglia.
I due gol al Torino mi hanno ricordato quello al Napoli nel 2008. Proprio in questi momenti vengono fuori gli uomini duri. E da capitano vero a fine partita, ti ho ascoltato commosso, hai dedicato la vittoria ai compagni e ai tifosi.
Forse dal vivo io e tua madre non ti abbiamo ma realmente detto quanto siamo orgogliosi di te. Oltre ad aver onorato il nostro sangue in campo, hai portato avanti, grazie anche a tua moglie Valeria, i valori della nostra famiglia in una società complicata, problematica e superficiale, come faceva tuo nonno Andrea, muratore e padre di sette figli. E per questo, figlio mio, non smetteremo mai di ringraziarti.»
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