Daniele De Santis, il principale accusato della morte di Ciro Esposito, il tifoso napoletano deceduto dopo 52 giorni di agonia, ha raccontato in un’intervista rilasciata a Panorama (in edicola da oggi) i momenti drammatici di quel 3 maggio 2014. “Se non avessi premuto quel grilletto sarei morto”, afferma l’ultras della Roma. L’uomo era uscito dal Circolo Boreale a Tor di Quinto prima della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli a Roma, e si è scontrato con i tifosi partenopei:
“Penso sempre a quel giorno e questa è e rimane una tragedia per tutti. Per la famiglia di Ciro e anche per la mia. A volte mi domando: se per salvarmi la vita, oltre alle sofferenze fisiche, devo veder soffrire tanto, non era meglio che mi avessero ammazzato?”.
De Santis, noto come Gastone negli ambienti dell’estrema destra romana e ultras (ma lui smentisce questo soprannome), si rimprovera il fatto di aver lanciato un fumogeno all’indirizzo di un pullman che trasportava i tifosi napoletani:
“L’unica cosa che non avrei dovuto fare è stata raccogliere un fumogeno e rilanciarlo verso un pullman parcheggiato sul controviale che chiudeva completamente l’accesso. Improvvisamente sono spuntate almeno 30 persone. Se fosse andata come sostiene chi mi accusa, avrei dovuto sparare al primo che mi capitava, no?”.
De Santis racconta di essere scappato e poi raggiunto da quelle persone. Dopo aver ricevuto “le prime bastonate e coltellate” e, mentre tentava di chiudere il cancello di accesso all’area dove abitava, “una gamba è rimasta sotto e si è staccata quasi completamente dal corpo. Ho arrancato per qualche metro e li ho avuti ancora addosso. Ero convinto di vivere gli ultimi momenti della vita. Se non avessi premuto quel grilletto sarei morto“.
L’amore per lo stadio scocca nel lontano 1978, anno del primo abbonamento:
“All’Olimpico conosco tutti e tutti mi conoscono, ma non sono mai stato un leader né ho mai capeggiato un gruppo. Non c’ho mai nemmeno provato. Tra le tante sorprese, dai giornali ho saputo che avrei un soprannome, Gastone. Nessuno mi ha mai chiamato così. Mi chiamano Danielino dai tempi in cui pesavo 50 chili di meno”.
De Santis smentisce anche i collegamenti con Mafia Capitale:
“Se non stessi vivendo una tragedia mi verrebbe da ridere. Delle persone coinvolte non ne conosco nemmeno una e di quei fatti non so proprio nulla. Di certo non faccio il santo, per cui non negherò che mi sia capitato di fare a pugni allo stadio. Ma la violenza non è prerogativa solo dello stadio. Gli episodi più gravi successi in passato, l’accoltellamento di un tifoso o altri incidenti mortali, sono sembrate sempre cose assurde anche a me. Chi mi conosce bene sa che io, se proprio devo, affronto lealmente le persone e che in vita mia non ho mai usato un’arma, nemmeno un taglierino. Figuriamoci un’arma da fuoco”.
Le indagini dovrebbero chiudersi entro febbraio, poi il processo:
“Sono cosciente di non poter tornare più a camminare normalmente. Si è dato spazio a qualsiasi ipotesi, anche la più assurda, pur di mantenere il punto. Partendo dal folle gesto di un pazzo scatenato all’agguato premeditato per motivi misteriosi, passando per i servizi segreti. Per fortuna ci sono organi investigativi come il Racis che si fermano solo davanti alla verità. Per ora la verità, oltre a chi c’era, la sa solo Dio»”.
Ad inizio ottobre, con una lettera inviata ai pm, Daniele De Santis, ammise di aver fatto fuoco il 3 maggio scorso prima della finale di Coppa Italia tra il Napoli e la Fiorentina. A fine giugno fu trasferito dal Policlinico Umberto I all’ospedale Belcolle di Viterbo, una struttura in cui vengono assistiti anche i mafiosi in regime di 41 bis, in un reparto seminterrato blindato, con accessi selezionati perfino per i medici e per gli infermieri di turno.
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