La storia di Luisito Suarez, il Pibe de Oro degli anni ’60 che Herrera volle per costruire la sua Grande Inter
Helenio Herrera lo ha voluto a tutti i costi per costruire quella Grande Inter che ancora oggi esercita un fascino magnetico anche per le generazioni di tifosi nerazzurri che non l’hanno vista all’epoca e l’hanno solo sentita raccontare. Il vulcanico mister convince Moratti a disfarsi di Angelillo e a conti fatti è una mossa azzeccata. Per portare in Italia Luisito Suarez occorrono 250 milioni di lire, una cifra importante nell’economia dell’epoca. Il quotidiano La Notte lo definisce «El Pibe de Oro» al suo arrivo a Milano, lo stesso soprannome col quale poi si conoscerà Diego Armando Maradona e aggiunge: «Sembra uno di quegli uomini che hanno il pensiero fisso a una cosa sola e per Luisito Suarez questa cosa dev’essere il pallone». La stella del Barcellona – altra coincidenza con il fuoriclasse del Napoli – sbarca in Italia con ottime credenziali: 2 scudetti, 2 Coppe di Spagna, 1 Coppa delle Fiere, il Pallone d’Oro del 1960. Con i soldi della sua cessione i blaugrana costruiscono un anello delle tribune del Camp Nou. In Spagna gioca come una mezzala-goleador: 112 reti in 216 gare. Nell’Inter diventa il leader al servizio della squadra: recupera palloni, fa girare i reparti, detta i tempi, sa coprire, ha il tiro e il senso della porta. Per tutti, è L’Architetto. Un’intelligenza calcistica superiore. Quel che convince di più è il suo lancio lungo, spesso di 50 metri, che con una precisione millimetrica taglia a metà il campo per creare i contropiedi di Jair e Mazzola. È un fuoriclasse, un gentleman, un atleta che sa emozionarsi: sono celebri i suoi pianti a dirotto dopo alcune sconfitte, così come la pacatezza e l’arguzia delle sue riflessioni una volta finita la carriera.
C’è il suo timbro su tutti i trionfi dell’Inter: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Non è certo un caso che lui non ci sia in Celtic-Inter, la finale di Coppa dei Campioni che segna la fine di quella grande esperienza. Negli ultimi 2 anni, Foni ed Heriberto Herrera lo arretrano nel ruolo di libero. Finché Fraizzoli non lo vende nel 1970 alla Sampdoria senza neppure avvisarlo: a Genova gioca con Marcello Lippi, vive 3 dignitose annate e si prende la soddisfazione di essere richiamato a 37 anni da Kubala in nazionale per giocare una partita contro la Grecia.
Il suo è stato un calcio di corsa e di pensiero. Nella figura classica del regista dell’epoca, queste sue dimensioni non si conciliavano. I chilometri li percorrevano i mediani, cavalier serventi di chi invece dirigeva il gioco e usava il cervello. Non è che Suarez cambi la tendenza, per molti anni a venire – almeno in Italia – sarà così, è lui che rappresenta una splendida eccezione. Tutta la capacità dell’Inter di capovolgere a grande velocità il fronte dipendeva dai suoi traccianti. Si sentiva un giocatore maturo, avvertiva la responsabilità di dover prendere per mano i compagni. Il paradosso è che il calcio all’italiana trovi in uno spagnolo uno dei suoi massimi interpreti, se non addirittura quello che ne garantisce la versione migliore, più efficace e veloce, più spietata almeno fino a quando non è arrivata la Nazionale di Enzo Bearzot.
Helenio Herrera lo ha esaltato, ne ha fatto il traduttore puntuale dei suoi desideri. Lo considerava il suo pupillo, gli concedeva il privilegio di essere diverso dagli altri, lo faceva accomodare in ritiro in una camera singola. Amava sintetizzare la squadra e il suo leader in una formula: «L’Inter è grande e Suarez è il suo profeta». Luis lo ricambiava, in compenso, con parole forti: «Herrera surclassa tutti. Dona tutto il suo ingegno, la sua fantasia alla squadra. Ha fatto di me un centrocampista solido, facendomi capire che la bellezza del gioco sta nell’efficacia».
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