In Brasile il calcio è una cosa maledettamente seria, quasi una religione di stato, è normale allora che i prossimi Mondiali siano attesi con una trepidazione a dir poco fuori dal comune. La Seleçao di questi anni non è certo la più forte di sempre, non certo paragonabile a quella del 1994 o a quella del 2002, due formazioni che partirono con i favori dei pronostici e giunsero da vincitori alla linea del traguardo. E poi c’è lo spauracchio argentino, l’Albiceleste è la rivale di sempre e tra le sue fila gioca un certo Lionel Messi, forse il calciatore più forte di sempre. Il solo pensiero di una vittoria dell’Argentina fa gelare il sangue nelle vene a 200 milioni brasiliani.
Di sicuro non prenderebbe bene un’eventualità del genere il sindaco di Rio de Janeiro, il primo cittadino Eduardo Paes sarebbe pronto al gesto più estremo nel caso arrivasse il trionfo dei rivali, soprattutto se in a farne le spese in finale dovessero essere i verdeoro: “Se l’Argentina dovesse vincere il prossimo Mondiale battendo in finale il Brasile, io mi suicido. L’Argentina ha già Messi e soprattutto adesso ha anche il Papa, quindi il Mondiale lo lascino a noi. Non possono prendersi tutto”. Il suo pensiero è in linea con quello di moltissimi brasiliani, tra questi anche il Ministro dello Sport Aldo Rebelo che qualche settimana fa ha dichiarato: “Se l’Argentina vincesse il Mondiale del 2014 per noi sarebbe una tragedia nazionale peggiore di quella del 1950”.
E infatti queste parole ci riportano direttamente a 63 anni fa quando il paese sudamericano ha vissuto il più grande dramma nazionale, non solo sportivo: era il 16 luglio del 1950, in Brasile tutti ricordano questa giornata con il nome di “O Maracanaço“, il dramma del Maracanã, il giorno in cui l’Uruguay vinse il suo secondo mondiale in una sfida rimasta nella storia, una partita che gettò nello sconforto un intero paese, lasciando ferite profonde nella memoria collettiva di un popolo. Il Brasile, allenato, da Flavio Costa si presentava alla sfida decisiva dopo aver distrutto Svezia e Spagna (7-1 e 6-1), sicuramente più difficile era stato il cammino di Schiaffino e compagni che avevano pareggiato con le Furie Rosse e vinto a fatica, 3-2 il finale, contro gli svedesi. Il pronostico alla vigilia era un puro esercizio di stile, i verdeoro sarebbero saliti sul tetto del mondo diventando campioni per la prima volta nella loro storia.
Nel paese era stato tutto preparato affinché le celebrazioni fossero qualcosa di memorabile, erano state stampate migliaia cartoline celebrative, l’inventore della competizione Jules Rimet aveva preparato un discorso soltanto in portoghese da pronunciare dopo esser sceso in campo, attraversando il tunnel composto dalla guardia d’onore, per consegnare il trofeo al capitano carioca Augusto. Le cose andarono diversamente, i padroni di casa, di fronte a poco meno di 200 mila spettatori, fecero più fatica del previsto a sbloccare il risultato, trovando il gol che sbloccava il risultato con l’esterno sinistro Friaça soltanto in apertura di ripresa. Poco male, sugli spalti esplose la festa, nulla sembrava più poter spegnere il sogno mondiale.
16 luglio 1950 – Schiaffino trafigge Barbosa e ristabilisce la parità.
Al 66′, un po’ a sorpresa però arriva il pareggio di Schiaffino, servito brillantemente da Ghiggia. Il Brasile è campione anche in caso di parità, ma il gol sembra devastare il morale dei giocatori di casa che in pratica smettono di giocare e al 79′ arriva il clamoroso raddoppio dell’Olimpica, lo mette a segno Ghiggia che batte il portiere Barbosa che da quel momento in poi avrà la vita rovinata. Al fischio finale sugli spalti del Maracanã si scatena il panico, due tifosi si suicidano lanciandosi dalla tribuna, almeno una decina muoiono per infarto. La festa è rovinata, lo stesso Schiaffino in seguito avrebbe dichiarato di aver provato pietà per i brasiliani, saltano tutte le celebrazioni previste, Rimet consegna la coppa in fretta e furia a Varela che insieme ai suoi compagni farà subito ritorno in Uruguay, motivi di sicurezza che non bastarono a preservare Ghiggia da un’aggressione che lo costrinse al rientro in patria con le stampelle. Non fu suonato neanche l’inno nazionale uruguayano, ufficialmente la banda non aveva neanche ricevuto lo spartito, di fatto anche se lo avessero imparato a memoria difficilmente avrebbero trovato la forza per eseguirlo.
In Brasile furono proclamati tre giorni di lutto nazionale, alla fine il numero dei morti sarà quello di un bilancio di guerra: il bilancio ufficiale parlerà di 36 suicidi, chi per la delusione, chi per l’essere caduto in rovina dopo aver scommesso tutto ciò che aveva sui Carioca, e 56 vittime di attacco cardiaco. Il portiere Barbosa sarà il capro espiatorio, per tutta la vita fu trattato dai suoi connazionali come un traditore della patria, tanto che a oltre 40 anni di distanza ha poi raccontato: “In Brasile la pena più lunga per un crimine è trent’anni di carcere. Io, da quarantatré anni, pago per un crimine che non ho commesso. Una volta una signora mi ha indicato in un mercato dicendo al suo bambino: Guarda figlio, quello è l’uomo che fece piangere tutto il Brasile”. Alla fine la nazionale brasiliana non giocherà una partita ufficiale per oltre due anni, abbandonerà la casacca bianca utilizzata fino a quel momento per passare alla storia verdeoro e soltanto nel 1958 riesce finalmente a coronare il sogno mondiale.
Le parole del sindaco di Rio de Janeiro ci hanno dato lo spunto per raccontare una storia di calcio che si perde lontana negli anni ma che non è assolutamente leggenda, il calcio in Brasile spesso è più sentito della religione e allora dichiarazioni come quelle di Eduardo Paes non sono il frutto di un’iperbole linguistica quanto piuttosto lo specchio fedele di un sentimento molto diffuso. Alla fine il vincitore lo stabilirà come al solito il campo, il Brasile parte da favorito, se non altro perché avrà dalla sua il calore del suo pubblico, ma Messi potrebbe coronare una carriera da sogno proprio con uno storico trionfo al Maracanã. Magari alla fine non sarà né Messi, né Neymar, che l’anno prossimo saranno anche compagni di squadra al Barcellona. Noi ci auguriamo che la coppa al cielo di Rio la possa alzare Gigi Buffon, ma il bello del pallone è che nulla è prevedibile, proprio come accadde quel giorno di 63 anni fa.
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