L’avventura è alle porte. Il Mondiale. La parola magica. Le pressioni e le depressioni, quelle tipicamente italiane, ma non è vero che l’era del vicino è sempre più verde. C’è a chi s’infortuna Montolivo e a chi s’infortuna Falcao. Oppure Ribery (che comunque, facciamo che ricordarlo a tutti, non è il nuovo Zidane). Vale la teoria della relatività, prima. E dopo vale solo la dura legge del vincitore, quella che una volta di più mettere in silenzio tutti, antagonisti e osservatori. A meno che non sarà il Brasile.

L’avventura Italia è dunque alle porte. Azzurri bluastri di lividi (infortuni, amichevoli di preparazione sulla soglia dell’imbarazzante, gambe pesanti e testa appesantita dai toni di una stagione ad alto voltaggio mediatico con le maglie dei propri club). Azzurri pallidi, qualcuno anche imberbe: da Perin possibile dodicesimo (che comunque non si sa mai, la storia insegna…) a Darmian che questi colori li aveva visti soltanto con le squadre giovanili, da De Sciglio quello che lo vuole pure il Real a Verrattì de France. Una collezione quasi senza precedenti, una generazione che comunque vada andrà protetta e coccolata.

Anche l’avventura della vita di Cesare Prandelli è alle porte. Come quella di Mario Balotelli. Perché il calcio si fermerà al presente, e così come dimentica in fretta fa anche moltissima fatica a riproiettarsi in avanti. Sono eventi che segnano, questi. L’Europeo fu una parentesi non dissimile, e La Strana Coppia (etica e controetica, duello tra titani) ne uscì quasi sorprendentemente con un 7 pieno in pagella e una nazione che fu quasi sorpresa nel ritrovarsi a sognare. Per poi svegliarsi tra i comuni mortali così, all’improvviso, al cospetto della Spagna. Le storie non si ripetono, a questo non ci credono, piuttosto le persone cambiano, crescono, cercano un senso nuovo nelle cose che sanno di nuovo.

Ecco, il Brasile è un’avventura che sa di nuovo, ma io resterei volentieri ancorato al vecchio adagio “del nonno”. Ovvero sia: “Per vincere un Mondiale servono tre cose: un allenatore che non pensi di fare l’allenatore, un portiere che para e un attaccante che segna“. A Italia ’90 mancò il portiere, negli Stati Uniti c’era una allenatore con la a maiuscola, in Corea c’era poco o niente (a parte un gruppo di calciatori quasi senza precedenti per qualità complessiva). In Germania non c’era l’attaccante dalla mitraglia facile, eppure vincemmo. C’era però l’asse centrale, concetto più moderno, dove l’attaccante lo puoi sostituire con un centrocampo di primissima qualità. Bisogna confidare in questo dunque, e incrociare le dita: Prandelli danni non ne farà, non è nel suo dna, lascerà che a comandare siano gli eventi; Balotelli può tutto e niente, e se sarò niente toccherà al surrogato Pirlo-Marchisio-De Rossi. Nel 1982 fu un po’ così, con l’esplosione di Paolo Rossi quando non ci credeva più nessuno. Pepito poteva magari fare lo stesso, cioè da spettatore per le prime tre partite.

Così non sarà. Non sarà un’avventura. Per l’Italia questo concetto non vale. Mica è il Belgio, o l’Ecuador. Ma come avete capito c’è speranza. Il nonno alla fine ha sempre ragione, anche quando ha torto.

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ultimo aggiornamento: 09-06-2014


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