Forse non lo sa neppure l’interessato, o forse sì: quando Francesco Acerbi giocava nella Berretti del Pavia era praticamente l’unico a distinguersi. Nel girone contro Torino, Juventus, Genoa e Sampdoria la sua squadra si piazzò con un dignitoso posto di centro classifica, forte soprattutto di una difesa tosta e arcigna. L’ultimo uomo di questa retroguardia era appunto lui, Acerbi, che agiva praticamente da battitore libero. Le speranze furono quasi perse quando in un Pavia-Juventus sul fango, terminato 0-0, Acerbi fu di gran lunga il migliore in campo, lottatore senza eguali in campo.
C’erano osservatori di Torino e Udinese a guardarlo, ed entrambi fecero la medesima scelta: bravo ma no, troppo lento. E, appunto, il giocatore perse un treno sul quale è risalito passando attraverso la prima squadra pavese, la Reggina di Foti e il Chievo di Campedelli.
Quindi arriva il Milan, ma lì è un Acerbi che diventa “sbruffone”. Figlio della propria fede rossonera, della voglia di spaccare il mondo. E invece il mondo lo spaccherà poi a Sassuolo, dove affronterà la malattia che ne muterà anche la personalità. Dove ritroverà il gusto e la voglia di giocare, dove riconquisterà i titoli per meriti sportivi e non per il dramma personale.
Dove segnerà anche gol decisivi, quelli che non sapeva segnare a Pavia, nelle giovanili, perché gli allenatori gli chiedevano una sola missione: difendere il portiere in tutti i modi. Cosa che puntualmente faceva. Con poca gloria personale, ma con il sogno di diventare ciò che oggi è. Anche un simbolo, se vogliamo.
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